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Julia Genz (Tübingen)



Glottofagia nei testi di Umberto Eco, Wolfdietrich Schnurre e Yoko Tawada*



Glottophagy in Eco, Schnurre and Tawada
The paper deals with an aspect of materiality in language as it is expressed in the complex metaphor of glottophagia, invented by Louis-Jean Calvet in the context of linguistics and colonialism. In this article the term is released from Calvet's unilateral negative use of the term as he focuses on its relation to orality, and instead it is linked with the positive literal tradition of eating written language as e.g. in the Bible and in the Classical Antiquity. From this point of view, glottophagia's poetological function as destroying, combining, reanimating, and purifying language emerges as a crucial feature of literary texts by Umberto Eco, Wolfdietrich Schnurre and Yoko Tawada.


L'argomento della glottofagia nei testi letterari è in primo luogo un problema della materialità della lingua e della scrittura che solamente negli ultimi anni è stata scoperta dalla letteratura critica (Strässle / Torra-Mattenklott 2005; Greber / Ehlich / Müller 2002; Gumbrecht / Pfeiffer 1995) e che è indispensabile per scrivere o parlare (la penna, la carta, il corpo ecc). Questo contributo vuole offrire, con gli esempi di Umberto Eco, Wolfdietrich Schnurre e Yoko Tawada, una prospettiva di indagine nella glottofagia come poetica.

Un linguista francese, non un critico letterario, ha sviluppato quell'idea di glottofagia che tratteremo in seguito per verificare se e come funziona tale concetto per i testi letterari.

In Germania vi sono biscotti a forma di lettere che sono chiamati "pane russo" (Russisch Brot), il cui nome ha origine dal fatto che un fornaio di Dresda ha importato la ricetta dalla Russia nel '900. Oggi si sa poco della storia di questi biscotti, mentre invece il mangiare lettere e testi scritti appartiene a una lunga tradizione, tanto vecchia quanto la scrittura stessa.

Sono soprattutto due le discipline che hanno reclamato come proprie il mangiare lettere: la religione e la pedagogia. Nel rituale magico-religioso del mangiare lettere possiamo trovare l'idea che l'uomo riceveva forza sovrumana dalle lettere sacre (Butzer 1998: 235) per esempio: nel Vecchio e nel Nuovo Testamento i profeti Ezechiele e Giovanni mangiano una pergamena data da Dio o da un angelo per ricevere l'ispirazione divina. Nell'Apocalisse di San Giovanni è scritto:




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E quando i sette Tuoni ebbero parlato, io mi accingevo a scrivere, ma sentii una voce dal cielo che diceva: 'Sigilla le cose di cui hanno parlato i sette Tuoni e non le scrivere'. [...] Poi la voce che avevo udito dal cielo di nuovo mi parlò e disse: 'Va′ prendi il libro aperto dalla mano dell'Angelo, che sta in piedi sul mare e sulla terra'.
Allora io corsi dall'Angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Egli mi disse: 'Prendilo e divoralo; amareggerà il tuo ventre, ma alla tua bocca sarà dolce come il miele'. Io presi il piccolo libro di mano all'Angelo e lo divorai: alla mia bocca era dolce come il miele; ma quando l'ebbi divorato mi sentii pieno di amaro nelle mie viscere. Poi mi fu detto: 'È necessario che tu profetizzi ancora, riguardo a molti popoli, nazioni, lingue e re' (Il Libro dell'Apocalisse, cap. 10, v.4; vv. 8–11).

La scrittura si libera così dalla persona dell'autore. Sebbene la scrittura possieda un raggio di diffusione più ampio di quello della lingua parlata, essa, nello stesso tempo, perde di credibilità nel momento in cui non è garantita dalla persona che parla. Inoltre, poiché la scrittura viene consumata soltanto con la facoltà visiva, la parola divina perde la sua forza totale.

Affinché il divino messaggio possa funzionare senza perdite, la scrittura deve essere letteralmente incorporata. Nella profezia di San Giovanni la scrittura morta deve essere riconvertita nella lingua parlata. Anche per i lettori di un monastero medievale leggere significava compiere un atto corporale, dato che, all'epoca, si leggeva raramente in silenzio, si leggeva soprattutto ad alta voce seguendo le singole righe col dito. Bernardo di Clairvaux, per esempio, desiderava che il lettore succhiasse la scrittura come un favo di miele (Butzer 1998: 236; Illich 1991).

Anche la pedagogia si avvale della partecipazione di tutti i sensi. Le lettere da mangiare hanno il compito di rendere l'insegnamento più efficace. Orazio riferisce che nell'antichità si davano ai bambini dei dolci sui quali vi era scritto l'alfabeto. Erasmo da Rotterdam consigliava di cucinare agli allievi lettere da mangiare per stimolare la loro capacità di lettura (Dornseiff 1985: 17).

I pedagoghi filantropi proseguirono questa tradizione culinaria: Johann Bernhard Basedow, un riformatore della pedagogia sulla base dei principi dell'Illuminismo scrive nel suo testo elementare, Elementarwerk (1785) che il piccolo Franz di due anni deve imparare a leggere con parole che siano piacevoli come l'uva o le fragole (Kittler 1987: 35s.).

Tale forma di glottofagia si riferisce soltanto alla scrittura, nella Bibbia viene mangiata una pergamena, nella prassi pedagogica si mangia l'alfabeto che, a sua volta, esiste soltanto insieme alla scrittura, infatti un alfabeto nel sistema orale non esiste (Eisenberg/Günther 1989: VII).




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La parola glottofagia è un neologismo, un'invenzione del linguista francese Louis-Jean Calvet, il cui libro, Linguistique et colonialisme. Petite traité de glottophagie, uscì nel 1974 (Calvet 1974). Nel testo, Calvet critica il rapporto dei colonizzatori con le lingue dei popoli colonizzati, distinguendo due varianti di glottofagia: da un lato lo sterminio fisico di una popolazione, dall'altro la sostituzione della lingua dei colonizzati con quella dei colonizzatori.

La lingua degli indigeni viene soppiantata o "mangiata" dalla lingua dei colonizzatori a poco a poco, in tre diverse fasi. Calvet reclama nel suo studio una linguistica critica che sia libera dal passato imperialistico e dalla glottofagia. Il suo modello ha suscitato reazioni disparate che vanno dall'entusiasmo fino al disprezzo per la sua superficialità (Glück 1986: 4). A noi non interessa tanto il modello sociolinguistico di Calvet quanto, piuttosto, il neologismo "glottofagia".

Già Sigmund Freud, nel saggio Das Unheimliche 1919 (trad. it.: Il perturbante), scrive che, nel caso di un neologismo, si deve presupporre l'esistenza di un nucleo specifico che giustifichi l'uso di una parola speciale (Freud 2000: 243). Tanto più che neologismi e denominazioni hanno un ruolo importantissimo nel discorso coloniale, come dice Calvet stesso. L'atto di nominare ha sempre una funzione cognitiva, il nome suggerisce un certo punto di vista sull'oggetto nominato e una certa interpretazione.

Il germanista e romanista Harald Weinrich nel suo articolo Metaphora memoriae del 1964, scrive: "Metaphern, zumal wenn sie in der Konsistenz von Bildfeldern auftreten, haben den Wert von (hypothetischen) Denkmodellen. Kritisch benutzt, helfen sie uns, Fragen zu stellen" (Weinrich 1976: 294).1

Il concetto di glottofagia assomiglia a quello di antropofagia. Ovviamente, nella lunga tradizione che precede Calvet, il mangiare le lettere non viene considerato in senso negativo, perché in questa tradizione si tratta di testi scritti. Il materiale di base della scrittura che si mangia è carta o pasta.

Nel modello di Calvet la glottofagia non si riferisce a testi scritti, ma a lingue con una tradizione orale. Il materiale di supporto non è la carta, ma sono i corpi dei loro parlanti. L'associazione di glottofagia e antropofagia è più che ovvia. Calvet caratterizza i colonizzatori come dei potenziali antropofagi.

Viceversa la paura fondamentale dei colonizzatori è stata quella del cannibalismo nel mondo da loro scoperto. Per capire perché la paura del cannibalismo è la paura radicale in una situazione piena di vari pericoli, si deve ricordare quello che scrive a tal proposito Stephen Greenblatt nel suo libro Marvelous Possessions: scopritori come Cristoforo Colombo non si davano pena di capire gli abitanti dei paesi scoperti e non avevano alcuna intenzione di imparare le loro lingue. Secondo il diritto naturale del medioevo, un paese disabitato apparteneva al suo scopritore. Anche Colombo tiene un discorso in cui dichiara di prendere possesso del territorio scoperto e in questo contesto usa la frase "non mi contraddisse nessuno" ("y no me fué contradicho"). Ciò non stupisce, dal momento che gli indiani a cui rivolge queste parole non possono capire il suo discorso e non possono nemmeno contraddirlo perché non parlano lo spagnolo (Greenblatt 1988: 58).




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La paura del cannibalismo si può spiegare con il fatto che gli spagnoli ignorano la funzione comunicativa della lingua tra gli indiani e loro stessi. Siccome la lingua significa il collegamento tra il corpo e la facoltà di comunicare, è la funzione del mangiare a diventare importante, fondamentale per gli spagnoli. I colonizzatori rimproverano agli indiani d'essere antropofagi, Calvet, viceversa, rivolge l'accusa di cannibalismo, nella forma della glottofagia, di nuovo contro gli spagnoli e i francesi. Che cosa c'è di notevole in questo?

Il rimprovero di cannibalismo nella forma della glottafagia segue una tradizione tipicamente europea in cui il corpo spesso viene escluso. Durante il processo di socializzazione, il corpo, come scrive Norbert Elias, viene sempre più escluso dalla vita quotidiana (Elias 1997), per esempio la presenza del corpo diminuisce nell'atto della lettura: la lettura silenziosa con il corpo immobile – il cosidetto Leseschlaf ('sonno della lettura') sostituisce la lettura collettiva a voce alta (Schön 1987).

L'abbandono del corpo porta ad un ulteriore sviluppo: il processo di alfabetizzazione porta con sé non solo uno sviluppo dell'intimità, ma trasforma, nello stesso tempo, il corpo in un corpo spirituale. Nelle lettere dell'epoca della 'Empfindsamkeit', per esempio, il corpo risorge sotto un fiume di lacrime (si pensi ad esempio al Werther) (Koschorke 1994: 605–628).

La spiritualizzazione di un fatto corporale si trova anche nella teoria della glottofagia di Calvet, quando questi definisce l'annientamento dei popoli come glottofagia. La parola "glottofagia" suggerisce, infatti, che si tratta di una forma più colta e spirituale, di una forma, per così dire, superiore dell'antropofagia.

Il termine glottofagia si può pertanto considerare esso stesso come una forma glottofagica, perché implica inavvertitamente una superiorità della glottofagia sull'antropofagia. Però si deve dire che il fagocitamento di una lingua da parte di un'altra non vale soltanto per i paesi colonizzati, ma si trova in quasi tutte le forme di confronto linguistico.

I seguenti esempi letterari evidenziano come la glottofagia non esista soltanto in relazioni di tipo coloniale. Per questo motivo non ha senso mettere alla gogna la glottofagia come caratteristica del colonialismo. Negli esempi letterari citati si vuole dimostrare il valore del concetto di glottofagia al di là di una critica ideologica.

Glottofagia per la letteratura non significa soltanto distruzione, come nella concezione di Calvet, ma anche trasformazione, appropriazione, assimilazione ecc. Per questa ragione si vuole indagare in questa sede se il motivo della glottofagia possa avere una funzione poetologica per la letteratura.




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Umberto Eco: Il nome della Rosa

Il primo esempio, Il nome della Rosa di Umberto Eco, dovrebbe essere abbastanza noto. La storia si svolge in un monastero nel 1327. Un ruolo importantissimo ha un manoscritto misterioso per il quale vengono uccisi monaci e sacerdoti nel labirinto di una biblioteca enorme. Le pagine di questo manoscritto sono per giunta avvelenate. I lettori che infrangono il divieto di leggere questo libro muoiono durante la lettura per la consuetudine medioevale di leggere i testi sottovoce, mormorando, e di masticare le parole del testo.

Di fronte ad una partecipazione così forte del corpo al processo della lettura risulta chiaro il motivo per cui le pagine avvelenate siano tanto efficaci. Il manoscritto misterioso è nientemeno che il secondo libro della poetica di Aristotele, nel quale si tratta dell'argomento del comico e che si ritiene scomparso. Di questa scomparsa Eco ci fornisce una spiegazione plausibile ma fittizia: è una scomparsa che si lega alla prassi storica della lettura e al valore del corpo.

La poetica di Aristotele viene considerata pericolosa dai monaci, perché tratta l'argomento del riso. Infatti, il rapporto tra il riso e il potere (clericale) è abbastanza complesso – per la cultura clericale ridere era spesso sinonimo di mancanza di disciplina (Altenhoff 2005: 3–16).

Alla fine della loro ricerca Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk trovano il bibliotecario cieco Jorge de Burgos, seduto in biblioteca con il libro di Aristotele in mano. Jorge cita le pagine summenzionate dell'Apocalisse di San Giovanni, ma con una variazione che ne cambia leggermente il senso: "Ascolta ora cosa dice la voce: sigilla quello che han detto i sette tuoni e non lo scrivere, prendilo e divoralo, esso amareggerà il tuo ventre ma alla tua bocca sarà dolce come il miele. Vedi? Ora sigillo ciò che non doveva essere detto, nella tomba che divento" (Eco 1989: 483).2

Inghiottire qui non significa "appropriarsi di qualcosa e annunciarla", ma rendere il corpo di Jorge il sepolcro del libro. Glottofagia in tal caso sembra significare soltanto distruzione, come nell'idea di Calvet. Gugliemo deve stare a guardare come Jorge "incominciò con le sue mani scarnite e diafane a lacerare lentamente, a brani e a strisce, le pagine molli del manoscritto, ponendosele a brandelli in bocca, e masticando lentamente come se consumasse l'ostia e volesse farla carne della propria carne" (NDR: 483).




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Parallelamente a Jorge che inghiottisce il libro, Guglielmo e Adso hanno paura di essere inghiottiti dall'enorme biblioteca. Non sapendo dove trovare le leve nascoste che ne aprono le porte, Adso teme addirittura di non trovare mai più l'uscita.

L'esperienza traumatica della biblioteca enorme è una paura del ventesimo secolo (Genz 2004: 340ss.). Nel racconto la Biblioteca di Babele, Jorge Luis Borges costruisce una biblioteca che ha le dimensioni dell'universo. Soltanto nel ventesimo secolo la facile disponibilità e l'enorme aumento quantitativo dell'informazione, grazie alle invenzioni tecnologiche, fanno parte di un paradosso dove, dall'altro lato, si trova l'uomo che da solo non può dominare questa massa di sapere. Anche il romanzo di Umberto Eco è un collage intero di manoscritti medievali, riferimenti intertestuali ecc. come scrive il critico letterario Raul Mordenti:

Potremmo anzi dire che il libro di Eco costituisce un vero e proprio repertorio di procedimenti e artifici compositivi, gli stessi che gli autori 'normali' utilizzano di solito di nascosto (perché non essendone cosciente il lettore essi funzionino meglio) che invece Eco questa volta ribadisce ed evidenzia al massimo, un po' come se si dipingessero di rosso i tubi del cesso o del riscaldamento. Questo spiega perché praticamente tutto nel libro di Eco sia già noto (che non significa affatto conosciuto), non perché è copiato ma perché è citato (Mordenti 1985: 40).

Il romanzo di Eco va al di là del concetto di glottofagia come distruzione, mostrandoci, infatti, come si possa risuscitare alla vita questo cimitero di citazioni. Soltanto il libro che viene conservato in biblioteca e che non viene letto è veramente morto. Nella consumazione, cioè nel mangiarlo, il libro viene risuscitato in modo che sopravviva, come sua verità, quello che ne è l'effetto: l'indurre al riso. È addirittura il corpo di Jorge che involontariamente dimostra il potere del comico nel suo ultimo spaventoso riso: "Rise, proprio lui, Jorge. Per la prima volta lo udii ridere... Rise con la gola, senza che le labbra si atteggiassero a letizia, e quasi sembrava che piangesse" (NDR: 483).

Come il profeta Giovanni, Jorge incorpora il messaggio e poi lo rappresenta con il suo corpo. Il punto cruciale qui è che Jorge, inconsapevolmente, tratta il libro per lui maledetto come un testo divino. Il corpo di Jorge non diventa per niente una tomba.

L'immagine della biblioteca come tomba spiega perché Adso veda l'incendio dei libri come una liberazione, come un enorme banchetto delle fiamme:




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Il lume andò a cadere proprio nel mucchio di libri precipitati dal tavolo, accatastati l'uno sopra l'altro con le pagine aperte. L'olio si versò, il fuoco si apprese subito a una pergamena fragilissima che divampò come un fascio di sterpi secchi. Tutto avvenne in pochi attimi, una vampata si levò dai volumi, come se quelle pagine millenarie anelassero da secoli all'arsione e gioissero nel soddisfare di colpo una immemoriale sete di ecpirosi (NDR: 486).

E Guglielmo dice anzi: "E non è necessario che qualcuno un giorno ritrovi quel manoscritto. Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare" (NDR: 495).

Sul piano letterario, l'incorporare dei libri significa produrre letteratura nuova, fare in modo, cioè, che tutti i frammenti letterari diventino un romanzo nuovo. La menzione di titoli e passi dei libri fanno apparire la biblioteca, pur nella sua rovina, più viva che mai.


Wolfdietrich Schnurre: Der Schattenfotograf

Il tema fondamentale delle opere dello scrittore tedesco Wolfdietrich Schnurre (1920–1989), ingiustamente caduto nell'oblìo, è la colpa derivante dall'esperienza della seconda guerra mondiale (Bauer 1996). Il senso di colpa è stato così forte in lui da compenetrare quasi tutte le altre sfere della sua vita. Nel corso della sua vita, ad esempio, si è sentito colpevole perché la professione di scrittore gli lasciava troppo poco tempo per la famiglia (Bauer 1996: 177).

Nella raccolta di racconti Gelernt ist gelernt ('Imparato è imparato'), Schnurre chiama la letteratura da un lato 'creatrice dell'uomo', dall'altro lato 'vampiro', anzi 'antropofago' (Bauer 1996: 177s.). La sua opera più importante, Der Schattenfotograf ('Il fotografo delle ombre'), uscì nel 1978. Non si tratta di un romanzo, ma di un collage di aforismi, ricordi autobiografici, piccole storie, riflessioni poetologiche ecc. Anche in questo testo si trova una variante del motivo della glottofagia, ma non in un senso distruttivo. Anzi, il motivo della glottofagia congiunge la sfera religiosa con l'obiettivo pedagogico. Nelle prime pagine il narratore ricorda un amico d'infanzia ebreo che un bel giorno va a trovare in una scuola religiosa e racconta come qui i bambini di tre anni imparino a leggere: l'insegnante inzuppa le lettere in un bicchiere di miele, ognuno deve chiudere gli occhi e deve leccare via il miele dalla lettera per indovinare di quale lettera si tratta. Poi, in un momento successivo, tutti riescono a trovare la loro lettera sul libro (Schnurre 1978: 16).




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Questa scena che compare non a caso nelle prime pagine del testo, introduce il programma poetologico di Schnurre, quello di arricchire le lettere con un'esperienza sensoriale. Glottofagia, come abbiamo già visto, è un modo per dare vita alla scrittura morta. Anche l'idea di trarre forza dalla glottofagia è rintracciabile in questo libro: dopo un lungo periodo in ospedale, Schnurre ha avuto gravi problemi motori, rimanendo a volte parzialmente paralizzato. Nel testo, infatti, lamenta sempre di non poter più giocare con Nenad, il suo piccolo figlio adottivo di quattro anni (Schnurre 1978: 17). La motorietà che la realtà gli rifiuta può essere compensata dalla scrittura e Schnurre sviluppa un modo di scrivere molto agile: vuole scrivere ogni giorno una sola frase. Prendere appunti per lui diventa più importante di scrivere, perché gli appunti significano per Schnurre flessibilità, mentre scrivere fissa il senso: "Nicht schreiben. Notieren. Schreiben zwingt zu formulieren. Notieren zu denken. Formulierungen legen fest, Notizen bewegen [...]" (Schnurre 1978: 9).3 Per questo motivo Il fotografo delle ombre assomiglia più a un caleidoscopio che a un romanzo.

È interessante osservare come il suo complesso di colpa si manifestasse anche di fronte alle cose inanimate, per esempio la carta. Da giovane, quando lavorava in una casa editrice, Schnurre distrusse involontariamente uno dei suoi libri preferiti e da allora la carta per lui è diventata un feticcio: non potrà nemmeno più spiegazzarla.

Schnurre scrive: [Hinter diesem Verhalten steckte die Hoffnung], wiedergutmachen zu können, was ich "Sigismund Rüstig" [Sigismund Rüstig ist der Titel des zerstörten Buches, J.G.] angetan habe"(Schnurre: Schicksalsbücher, in: Bauer 1996: 181).4

Anche per leggere non toccava quasi mai le pagine: "Wenn ich ein Buch lese, lege ich es vorsichtig vor mich hin; nie würde ich auf den Gedanken verfallen, es beim Lesen in den Händen zu halten" (Schnurre: Schicksalsbücher, in: Bauer 1996: 181).5 Questo rispetto quasi religioso è soltanto una faccia della medaglia. Nel testo Il fotografo delle ombre questo motivo si rovescia inavvertitamente nel suo contrario, cioè nella glottofagia.

È vero che in questo caso si tratta di una forma moderata di glottofagia perché, grazie al rapporto feticistico che Schnurre ha con la scrittura, la lettera non viene propriamente mangiata – però si può dire che la glottofagia abbia un ruolo importante per la scrittura e la concezione dell'opera.


Yoko Tawada: Im Bauch des Gotthards

Nel terzo esempio, un saggio letterario di Yoko Tawada, il motivo della glottofagia si libera dalla tradizione ebraico-cristiana e viene collocato in un contesto religioso più vasto.




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Anche il punto di vista etnologico ha un ruolo importante, come vedremo. La scrittrice giapponese Yoko Tawada è nata a Tokyo nel 1960. Nel 1979 viene per la prima volta in Germania con la ferrovia transiberiana. Nel 1982 si trasferisce definitivamente in Germania e da allora in poi scrive anche in tedesco.

Per la sua origine, Tawada potrebbe perfettamente incarnare il tipo del narratore che 'viene da lontano', diverso da quello stanziale, così come descritto da Walter Benjamin (Benjamin 1989: 386). Yoko Tawada, però, ai lettori tedeschi non dà notizia alcuna della sua patria giapponese. Viceversa, osserva da vicino le abitudini linguistiche e la vita quotidiana europea.

Il suo racconto Im Bauch des Gotthards ('Nel ventre del Gottardo') si può leggere come la storia di un processo di correzioni durante il quale si appianano, strato dopo strato, tutti i malintesi interculturali, finché alla fine rimane soltanto una pagina bianca. Tawada gioca con quel punto di vista etnologico ingenuo che crede di capire l'estraneo mentre di fatto lo fraintende completamente.

La Svizzera, nazione di supposta cultura razionale e illuminata, assume nel racconto di Yoko Tawada il volto di una cultura, per così dire, primitiva, attraversata dalla superstizione. Proprio la bandiera nazionale svizzera riceve lo statuto di talismano protettivo: "Die Wappen waren wahrscheinlich als Schutzgöttinnen gegen die Eisenbahnunfälle zu verstehen, ähnlich den Frauenfiguren an der Spitze eines Schiffes, die Unglück abwenden sollten" (Tawada 1996: 95).6 Con l'associazione di stemmi delle ferrovie svizzere alle polene, la scrittrice si inserisce nella tradizione degli esploratori e dei navigatori. La narratrice della storia ha verso la nazione culturale Svizzera lo stesso atteggiamento che Colombo e gli altri esploratori hanno avuto verso l'America o l'Africa.

Tawada prende alla lettera metafore e idiomi. Gottardo per lei non è soltanto il nome di una montagna, ma una figura mitica, "con una barba dura come l'acciaio" (G: 93).

La denominazione dirige l'atto cognitivo. La figura del Gottardo diventa l'allegoria della nascita della nazione svizzera dallo spirito patriarcale della tecnica e del progresso:

Durch den Gotthart zu fahren hieß, durch den Körper dieses Mannes zu fahren. Ich habe mich noch nie in einem männlichen Körper befunden. Jeder Mensch hat einmal in einem Mutterleib gesessen, aber keiner kennt den Innenraum des väterlichen Körpers [...] Man glaubt gerne, daß ein Berg die männliche Mutter einer Nation sei. Ich dachte an den Berg Fuji" (G: 93ss.).7




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La narratrice apprende presto che le immagini che stanno dietro le metafore non hanno la forza di creare una comunità e non hanno un valore comunicativo. Le sue associazioni, per esempio, fanno uno strano effetto ad un conoscente che è il tipico intellettuale di sinistra. Invece di pensare a miti patriarcali e a un progresso tecnico-razionale lui preferisce pensare alla bellezza dell'arte italiana: "Es sei falsch, sich auf den Gotthard zu freuen, sagte mir mein Hamburger Bekannter. Man solle sich statt dessen auf das italienische Licht freuen, das sich hinter dem Gotthard befinde" (G: 93).8

I turisti giapponesi, dal canto loro, al Gottardo con la barba finta e la pancia grossa preferiscono la vergine di nome Giogo. In questo groviglio di connotazioni la narratrice usa la glottofagia come un mezzo per chiarire la lingua.

La glottofagia assume qui una funzione catartica. Prendendo alla lettera le metafore, trasforma le gallerie svizzere nell'esofago, nello stomaco e negli intestini di un corpo paesaggistico-culturale. La narratrice attraversa queste gallerie come la microcamera di una gastroscopia, osserva i vari livelli culturali fino a scoprire al di sotto del mito culturale patriarcale un altro mito di natura femminile che narra della minaccia che la tecnica rappresenta per l'allegoria dell'Elvezia:

Ich war entsetzt von meinem Fehler, mir den Gotthard als einen männlichen Körper vorzustellen. Der Tunnel sollte ein Loch an dem Busen der Mutter Helvetia sein. Insofern war der Tunnelbau für die Gebirge eine schmerzhafte Erfahrung, aber die Menschen waren stolz auf ihn" (G: 97).9

Tuttavia, lo stesso mito della cultura non è nient'altro che un costrutto culturale di una certa epoca, perché soltanto nell' 800 si cominciarono a codificare e a polarizzare virilità e femminilità. Questa polarizzazione riservò all'uomo il razionale, il ragionevole e la cultura, alla donna l'emozionale, l'irrazionale e la natura.

Per questo motivo la narratrice deve superare il livello semantico che porta con sé troppi malintesi. Il secondo attraversamento della galleria riduce le sue associazioni alla fonetica e all'onomatopea: "Ich rief Göschenen und hörte Steine in dem Wort. Harte Steine lebten in 'G', Kieselsteine rutschten den Hang hinunter bei 'ösche', und weiche Steine wurden feucht und lehmig bei 'nen'" (G: 98).10 A lungo andare anche il livello fonico diventa per la narratrice un processo doloroso. In un sogno che fa nel paese svizzero di Göschenen lascerà anche questo livello per portarsi nella sfera del numinoso, nel silenzio divino. Soltanto dopo questa esperienza potrà ritornare nella lingua.




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Als ich in Göschenen übernachtete, fielen im Traum diese Steine [aus dem Gotthardtunnel, J.G.] auf meinen Kopf wie schmerzhafte Wortlaute. Ich verletzte mich aber nicht, denn ich wurde zu einem Teil des Ortsnamens, indem ich ihn wiederholte. Bald stieg ich in die Höhe, gewichtslos und bewusstlos, und erst auf dem Berg erwachte ich wieder. Ich sah keine Steine mehr, sondern nur noch Schnee, heilig weiß. Andermatt. Es war der Ort des unbeschriebenen Papiers. Dann stieg ich wieder hinunter nach Göschenen, wo die Steine sprachen"11

In tutti questi esempi letterari, come si è visto, la glottofagia non viene considerata soltanto in senso negativo e non ha un valore distruttivo, anzi diventa un mezzo poetologico che non vuole superare la corporalità e sottolinea l'importanza non soltanto del valore del senso visivo dominante, ma di tutti gli altri sensi, soprattutto dell'udito.

Nel romanzo di Umberto Eco la glottofagia rende possibile la dinamicizzazione di un sapere già irrigidito per creare opere letterarie nuove. Anche Wolfdietrich Schnurre usa la glottofagia come metafora di ciò che rende flessibile il suo modo di scrivere. Per Yoko Tawada invece la glottofagia funziona come uno strumento di catarsi che libera la lingua dalla zavorra culturale. Di là dall'essere soltanto un motivo, la glottofagia significa una qualità poetologica e diventa un modo particolare di scrittura.


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Schnurre, Wolfdietrich (1978): Der Schattenfotograf. Aufzeichnungen. München: List.

Schön, Erich (1987): Der Verlust der Sinnlichkeit oder Die Verwandlung des Lesers. Mentalitätswandel um 1800. Stuttgart: Klett-Cotta.

Strässle, Thomas / Torra-Mattenklott (a cura di) (2005): Poetiken der Materie: Stoffe und ihre Qualitäten in Literatur, Kunst und Philosophie. Freiburg i. Br. e Berlin: Rombach.

Tawada, Yoko (1996): "Im Bauch des Gotthards", in: Tawada, Yoko: Talisman. Tübingen: Konkursbuch.

Weinrich, Harald (1976): "Metaphora memoriae", in: Weinrich, Harald: Sprache in Texten. Stuttgart: Klett, 291–294.


Note

* Il presente contributo è la versione scritta di una conferenza tenuta all'Università di Salerno il 5 aprile 2006. Colgo l'occasione per ringraziare i colleghi salernitani ed in particolare Annamaria Laserra, Lucia Perrone Capano, Paola Gheri, Nicoletta Gagliardi, Carrol Ciarli e Franco Ferranti. Per la traduzione dei testi di Wolfdietrich Schnurre e Yoko Tawada sono grata a Lucia Perrone Capano e Paola Gheri.

1 "Le metafore possono essere considerate come dei modelli di pensiero ipotetico. Nell'esercizio critico ci aiutano a fare domande."

2 Da ora in poi citato con la sigla NDR.

3 "Non scrivere. Prendere appunti. Scrivere costringe a formulare. Prendere appunti costringe a pensare. Formulazioni fissano, appunti mettono in moto."

4 "[Dietro questo comportamento si nasconde la speranza] di poter riparare quello che ho fatto a Sigismund Rüstig. [Sigismondo rustico è il titolo del libro rovinato, J.G.]

5 "L'idea di tenere un libro tra le mani per leggerlo non mi avrebbe mai neppure sfiorato".

6 "Probabilmente gli stemmi vanno visti come divinità protettive contro gli incidenti ferroviari, come le immagini femminili sulla punta di una nave che dovrebbero distrarre la sfortuna." Da ora in poi citato con la sigla G.




PhiN 42/2007: 37


7 "Passare attraverso il Gottardo significava passare attraverso il corpo di quest'uomo. Non mi sono ancora mai trovata in un corpo maschile. Ogni essere umano è stato una volta in un corpo materno, ma nessuno conosce lo spazio interno del corpo paterno. […] Si tende a credere che un monte sia la madre maschile di una nazione. Pensavo al monte Fuji."

8 "Mi immaginavo il grande tunnel, il ventre di San Gottardo, e me ne rallegravo. È sbagliato rallegrarsi per il Gottardo, mi diceva la mia conoscente di Amburgo. Ci si dovrebbe rallegrare invece per la luce italiana, che si trova dietro il Gottardo."

9 "Ero sconvolta dal mio errore, dall'avere cioè immaginato Gottardo come corpo maschile. Il tunnel doveva essere un buco nel petto della madre Elvezia. Per questo la costruzione del tunnel fu un'esperienza dolorosa per la montagna, ma gli uomini ne erano orgogliosi".

10 "Pronunciai il nome 'Göschenen' e sentii i sassi nella parola. Sassi duri si trovavano nella 'G', il pietriccio sdrucciolava giù dal pendìo in 'ÖSCHE', e pietre leggere diventavano umide e argillose in 'NEN'.

11 "Quando pernottai a Göschenen queste pietre mi caddero sulla testa in sogno come dolorosi suoni di parole. Non mi ferii però, poiché diventai una parte del toponimo, ripetendolo. Subito mi sollevai in alto, senza peso e priva di sensi, e mi risvegliai di nuovo solo una volta sul monte. Non vidi più nessuna pietra, ma solo neve, santa, bianca. Andermatt. Era il luogo della carta non scritta. Poi scesi di nuovo giù verso Göschenen, dove le pietre parlavano".